– di Andrea Innocenti –

Raramente un evento ha stravolto la vita e le abitudini di un numero così alto di persone in un modo tanto invasivo e in tempi così brevi. La pandemia ci ha costretti a confrontarci con innumerevoli aspetti di noi che spesso tendiamo a fuggire: il nostro essere limitati e mortali, la paura della relazione con l’altro, il dover sottostare a limitazioni sia fisiche, sia sociali, sia psicologiche.

Le costrizioni legate alla pandemia hanno estremizzato ancora di più situazioni di disagio sociale e psicologico già presenti e slatentizzato aspetti problematici ben celati nella quotidianità di molte persone. Sono state colpite le neomamme, costrette a parti solitari e isolati. Strazianti i momenti di lutto e dolore passati da chi ha perso un parente o un amico. Hanno inciso fortemente sui bambini, costretti a lunghi periodi senza socialità e senza incontrare nonni e zii. Le grida di aiuto sono state numerose: solo per citare un dato, la Croce Rossa Italiana riporta oltre 17000 richieste di supporto psicologico (di cui quasi il 90% da parte di operatori sanitari) nei soli mesi di marzo e aprile 2020.

Di certo un aspetto ampiamente sollecitato ha riguardato il senso di solitudine. Abituati ad essere immersi nella sensazione di libertà e frenesia, vivendo vite spesso non pensate ma agite in un susseguirsi di impegni e scadenze, costantemente  connessi in modo virtuale con l’altro, la scorsa primavera tutto è rallentato, le strade si sono svuotate, ognuno ha vissuto una sensazione di spaesamento e sospensione.

Il lockdown prima, il distanziamento sociale e le espressività dimezzate dalle mascherine nei mesi successivi, ci hanno messo in obbligato ascolto di noi stessi e in contatto con la distanza e il silenzio, dentro e fuori di noi. Un silenzio mai vuoto, all’opposto pieno di domande e timori.

La psicoterapia, in quanto luogo in cui il silenzio può essere vissuto e ascoltato, dal cui ascolto possono emergere contenuti nuovi e talvolta dolorosi, è stata teatro di grandi crisi e cambiamenti.

E proprio da qui possiamo ripartire. Se vissuti come occasione, come luogo fertile di riflessione su di sé, il silenzio e la solitudine diventano uno spazio di crescita e di possibilità. Il contatto con noi stessi, spesso tralasciato a favore del fugace e onnipresente contatto social con gli altri, può essere il momento in cui guardarci con nuovi occhi, l’anticamera di un incontro con l’Altro differente e più sincero.

Perché se è certo che, nella nostra natura di animali sociali, delle relazioni non possiamo fare a meno -altrimenti la commozione diventerebbe solitudine come afferma Vittorio Lingiardi (2019)- è altrettanto vero che interrogandoci su di noi possiamo arrivare ad esempio a decidere chi è l’interlocutore che presentiamo in questo dialogo: se la parte di noi già nota, accomodata sulle aspettative altrui, oppure quella nuova, emersa dal nuovo dialogo con noi stessi.

Una solitudine non solo dolorosa, dunque, ma anche viva. Donald Winnicott (1965) sostiene che esista una differenza tra la capacità di stare soli, anche in presenza di altri (“uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo emotivo”), e la sensazione di solitudine che si traduce nell’assenza di tale capacità e del conseguente senso di vuoto e di mancanza, derivante dal mancato sviluppo di un senso di continuità dell’immagine della madre.

La capacità di stare soli non dipende dalla vicinanza fisica: è possibile stare soli in presenza di altri, così come sentirsi in compagnia essendo soli.

Scrivendo questa breve riflessione ho pensato alla metafora dell’uomo nello spazio, lanciato da propri simili oltre i limiti immaginabili e contemporaneamente solo in un nuovo spazio apparentemente senza confini in cui è forte la sensazione di smarrimento. Ci sono due canzoni molto conosciute, Space Oddity (1969) di David Bowie e Rocket Man (1972) di Elton John. Entrambe parlano del viaggio spaziale del protagonista e della straniante e meravigliata sensazione di essere oltre il confine del cielo fluttuando e guardando la Terra (“I’m stepping through the door and I’m floating in a most peculiar way, and the stars look very different today”). In entrambi i brani, ciò che sembra permettere il prendere una distanza dalla Terra è la presenza di un legame di amore. O meglio, è ciò che dà un senso alla distanza, sentirsi in compagnia essendo soli, come detto precedentemente:

“Tell my wife I love her very much she knows”

(Space Oddity)

“Dite a mia moglie che l’amo, lei lo sa”

 

“I miss the earth so much I miss my wife
It’s lonely out in space
On such a timeless flight”
(Rocket Man)

“Mi manca così tanto la terra, mi manca mia moglie
Che senso di solitudine qui nello spazio
In un volo senza tempo”
 

Perché talvolta accettare il proprio senso di solitudine e darsi la possibilità di viverlo, senza confonderlo con inutile rumore di sottofondo né tentativi di fuga, ci permette di ritrovare il senso delle nostre relazioni. E in questo periodo di smarrimento planetario, forse è l’unica cosa che possiamo fare…

 

“Planet Earth is blue
And there’s nothing I can do”
(Space Oddity)

“La Terra è triste
E non ci posso fare niente”
 

 

Guarda i video:

 

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